La minaccia dei terroristi in prospettiva

L’Era dell’Asimmetria


estratto da Superclass di David Rothkopf, settembre 2008

Per quanto riguarda il giudizio secondo cui la minaccia terroristica sarebbe una motivazione altrettanto valida di quelle addotte in passato per entrare in guerra, scarsi sono gli elementi di verità. I fatti smentiscono le argomentazioni dell'amministrazione Bush e di altri schierati nel «contingente» degli allarmisti - il cielo ci sta crollando addosso -, la variegata compagine estera, dagli esperti di terrorismo, che si accreditano tanto più quanto più la minaccia sembra incombente, alla stravagante frangia di islamofobi dalla connotazione quasi razzista che imperversano sui mass-media di destra. La retorica profusa per descrivere la minaccia ha spesso travalicato i limiti dell'irrazionalità. Come ha epigrammaticamente puntualizzato Zbigniew Brzezinski: «Il terrore è una tattica, non un nemico».4

Se li analizziamo retrospettivamente, i dati rivelano che la minaccia terroristica è meno insidiosa di quanto si è voluto far credere. Secondo il dipartimento di Stato, nel 2006 ci sono stati circa quattordicimila attentati terroristici nel mondo, molti di più rispetto agli undicimila del 2005.5 5 Il numero di morti causati da questi attacchi è salito a quasi 20.000 civili contro 14.600 dell'anno precedente. Sono cifre inquietanti, ma diventano quasi trascurabili al confronto con una pletora di altri problemi che, in termini di costi di vite umane, potrebbero essere considerati assai più minacciosi. Il numero di bambini che ogni dodici ore muoiono in tutto il mondo per cause che si potrebbero prevenire è quasi uguale al numero di vitti me causate in un anno intero dagli attentati terroristici.6 Se condo I'ONU, ogni tre giorni I'HIV/AIDS uccide in tutto il mondo lo stesso numero di persone che il terrorismo ammazza in un anno.7

Approfondendo i dati appena introdotti, si constata che i numeri sul terrorismo restano più delimitati di quanto potrebbe sembrare a un primo esame. Delle ventimila persone che se condo il dipartimento di Stato sono state vittime del «terrorismo» nel 2006, due terzi sono morte in Iraq.8 In altre parole, circa quattordicimila civili hanno perso la vita in attacchi terroristici, sferrati per reazione all'ingiustificata invasione americana dell'Iraq nel 2003. Probabilmente tutte quelle morti non si sarebbero verificate se non ci fosse stata l'invasione. Ma dobbiamo anche osservare che, al di fuori dell'Iraq, a livello mondiale gli atti terroristici hanno mietuto altre seimila vittime.

Inoltre, quasi tutti coloro che sono stati uccisi o feriti dalla violenza terrorista non erano americani. Nel 2005 il terrorismo ha causato la morte di cinquantasei civili statunitensi e nel 2006 questo numero si è dimezzato, scendendo a ventotto.9 Di questi, la maggior parte è morta in Iraq. In definitiva, sono circa una dozzina gli americani uccisi da terroristi in paesi di versi dall'Iraq.

Anche se tali dati sembrano confermare la pericolosità del terrorismo, difficilmente si riuscirebbe a considerarli una motivazione valida per giustificare la più radicale ricostruzione del sistema di sicurezza nazionale statunitense degli ultimi sessant’anni. A fatica si può affermare che hanno reso necessario investire le centinaia di miliardi di dollari spese in Iraq, e non sembrano nemmeno poter garantire un sostegno da tempi di guerra da parte del Congresso, dove, per il 2008, è stato presentato un budget per la difesa che è arrivato a 481 miliardi di dollari, il 66 per cento in più rispetto a sei anni prima, nonché una somma in dollari costanti superiore a quella di qualunque altro anno a partire dal 1985, il picco raggiunto dalle spese per la Guerra fredda dell'era Reagan.10

È una risposta proporzionale? Se no, perché non lo è?

Persino nell'anno più drammatico per numero di uccisioni terroristiche di cittadini americani, il 2001 con 2974 morti, erano circa quindici volte di più gli americani che perdevano la vita in incidenti stradali, ed erano sei volte di più quelli che morivano vittime di omicidio e ancora di più per incendio o annegamento.11 Ma nessuna di queste minacce più incalzanti per la vita americana ha provocato una concreta reazione minimamente paragonabile alla mobilitazione contro il terrorismo. Nonostante molte dichiarazioni a sostegno dell'ipotesi contra ria, la possibilità che i terroristi fossero un reale pericolo per l'esistenza degli Stati Uniti o che, anche nella più pessimistica delle ipotesi di attacco nucleare, sconvolgessero l'economia americana era prossima a zero. Perfino nello scenario apocalittico di un ordigno nucleare fatto esplodere in una delle principali città statunitensi, la nazione sarebbe sopravvissuta, mal grado le perdite incalcolabili. Inoltre, non c'è motivo di credere che, anche se infiammato dai nostri interventi in Medio Oriente, il terrorismo costituisca una minaccia di pericolosità paragonabile, in prospettiva storica, alla lotta senza tregua per impedire l'avanzata del comunismo, o al nazismo o alle ambizioni imperialistiche giapponesi.

Ma, allora, che reale consistenza ha questa minaccia? Al Qaeda, la rete terroristica responsabile degli attacchi dell'11 settembre, ha un numero imprecisato di seguaci: diverse migliaia, a dar retta alle stime più attendibili. Secondo la Relazione della Commissione d'inchiesta sull'11 settembre, dispone di un budget annuo di 30 milioni di dollari,12 all'inarca il costo di un elicottero cargo militare Chinook.13 O, se preferite, considerato l'attuale «tasso di spesa» in Iraq, è un budget equivalente a quanto gli Stati Uniti spendono in quattro ore in quel paese.14 Ciò non significa che i terroristi non possano impiegare il loro denaro in un modo migliore di quanto facciano gli Stati Uniti in Iraq (sarebbe davvero difficile non riuscirci), ma suggerisce che le loro potenzialità non sono illimitate. Anche se siamo riusciti a capi re molti aspetti del «potere» della sua struttura a rete, la mancanza di un'organizzazione coesa, attiva a tempo pieno, com plica la valutazione analitica dell'effettiva forza di Al Qaeda istante per istante e, di contro, semplifica il compito a chi è in cline a sopravvalutarla.

Per raggiungere gli obiettivi più importanti del suo programma, risultati che più raramente riesce a conseguire con azioni in campo aperto, Al Qaeda conta sull'amplificazione dell'entità e della credibilità della minaccia che i media e i governi eccessivamente reattivi, come l'amminislrozione Bush, le assicurano. Per esempio, mentre gli attacchi dell'11 settembre hanno provocato 16 miliardi di danni alle proprietà a Lower Manhattan,15 la reazione statunitense a quegli attacchi è costata, secondo alcune stime, oltre un trilione di dollari16 e la vita di più di quattromila soldati americani e di decine di migliaia di iracheni, per non parlare del costo in termini di limitazione dei diritti civili nazionali e del danno incalcolabile alla reputazione degli Stati Uniti nel mondo.17 17

In poche parole, abbiamo reso i terroristi più potenti di quanto lo siano in realtà. E la domanda è: perché? Che sia stato un complotto ordito tra leader finanziari, politici e militari conniventi in un retrobottega annebbiato dal fumo di sigari e maleodorante? La risposta ovviamente è no: non solo perché non ci sono abili pianificatori tra le persone che hanno voluto questa guerra al terrore, ma molto più semplicemente perché non sarebbe stato necessario che si ritrovassero in un invivibile retrobottega.

Innanzitutto, visto che al momento degli attacchi dell'11 settembre il sistema politico era gestito da un governo le cui idee sul Medio Oriente coincidevano con quelle di Bush e tenuto conto dei rapporti fra l'amministrazione Bush e i regimi prevalenti in quelle regioni, i suoi stretti legami con l'industria petrolifera e con i principali fornitori della difesa, nessuno avrebbe dovuto stupirsi per il risultato: tutti i vettori di forza dei principali gestori del potere puntavano nella direzione di quel tipo di avventura militare unilaterale, che poi si è realizzata. In parte, è stata la conseguenza di un sistema in cui si sono intese perfettamente due convenienze: a causa della particolare struttura di incentivi ai politici, era conveniente adottare un atteggiamento bellicoso, e a causa della particolare struttura di incentivi al complesso militare-industriale, era vantaggioso sostenerlo. È stata anche la conseguenza dell'umore politico di una nazione profondamente ferita, che ha instaurato un terreno in cui quel l'approccio ha attecchito, non essendo gli Stati Uniti inclini a estenuanti discussioni ma desiderosi di agire e mostrare la pro pria forza. Inutile, il team ili Bush ha mostrato tutta la sua impreparazione a gestirà la guerra In Iraq e a conservare le alleanze internazionali, ma si è rivelato eccezionalmente esperto nel manipolare l'opinione pubblica americana.

(Sottolineo che quest'analisi non è assolutamente una negazione della minaccia terroristica. Piuttosto una critica alle giustificazioni apparentemente razionali e alla conduzione della «guerra al terrorismo» e una denuncia di inclinazioni pericolose che, in parte, affondano le radici in un certo modo di finanziare la difesa e in una comunità politica che si ispirano all'idea della guerra permanente. Malgrado tutto, non si può negare la reale, tremenda pericolosità della minaccia costituita da queste reti non ufficialmente strutturate di nemici, in particolare per quanto riguarda la proliferazione di armi di distruzione di massa e la stabilità di alcuni stati vulnerabili come Pakistan, Libano, Egitto e altri. È importante, necessario e urgente un approccio multilaterale adeguato in cui collaborino eserciti, forze di polizia, intelligence, iniziative politiche ed economiche.)

È fondamentale che gli strateghi militari statunitensi e occidentali riconoscano la rilevanza dei gruppi terroristici e dei cosiddetti «nonstate actors». Infatti, negli ultimi decenni, il principale cambiamento nella struttura della superclass globale mili tare-industriale è consistito nello spostamento della sua attenzione da conflitti simmetrici (il mondo bipolare della Guerra fredda) a conflitti asimmetrici (l'attuale, in cui Stati Uniti e Occidente hanno un potere sproporzionato rispetto alle altre nazioni e ai nonstate actors). Anche se tale situazione potrebbe cambiare nell'arco degli anni - se la Cina continuerà a potenziare i suoi arsenali, o la Russia assumerà un atteggiamento più bellicoso, o gli Stati Uniti riusciranno a impedire la creazione di nuove alleanze nemiche -, è possibile che nei prossimi decenni gli Stati Uniti o i loro alleati siano impegnati in una serie di scontri che, come affermò nel 1964 David Galula, un osservatore della guerra in Vietnam, potrebbero essere assimilati a un combattimento tra il leone e la mosca: conflitti in cui «la mosca non è in grado di sferrare un colpo che metta fuori combatti mento l'avversario e il leone non può volare».18

Ciò ha apportato diversi cambiamenti di grande rilievo nella struttura della superclass militare-industriale globale: il declino di alcuni protagonisti tradizionali e l'ascesa di altri, l'esaltazione di nuove abilità e, come abbiamo visto nel caso di altri gruppi, un'enfasi crescente per la collaborazione internazionale. Esi ste ancora una superclass militare-industriale globale, ma essa si evolve rapidamente e i futuri cambiamenti probabilmente metteranno in crisi alcune delle dottrine e delle strutture che oggi sembrano incrollabili.

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