Il vuoto di potere

Globalisti contro Nazionalisti: linea di frattura politica per un nuovo secolo

estratto da Superclass di David Rothkopf, settembre 2008


Lo schema secondo cui i presidenti si attribuiscono certi poteri e il Congresso abroga alcune responsabilità non solo si ripete nel corso della storia, ma addirittura riflette quei modelli che negli Stati Uniti hanno portato alla concentrazione del potere politico nelle mani di pochi, soprattutto quando si tratta di definire il ruolo internazionale.

Per esempio, nell'ordinamento politico statunitense dovrebbe avere maggior valore non il lavoro svolto dal presidente, bensì la volontà dell'elettore. Gli elettori, tuttavia, rinunciano al potere nel momento in cui non si assumono la propria responsabilità come cittadini di valutare e scegliere tra le opzioni che vengono loro proposte. Circa il 40 per cento degli americani aventi diritto di voto non si è preoccupato di esercitare tale di ritto alle elezioni presidenziali del 2004, e due anni dopo quasi il 60 per cento non ha votato alle elezioni di metà mandato.7 Da un sondaggio condotto nel 2007 dal Pew sul livello di informazione degli americani relativamente a fatti di attualità emerge chiaramente che molti non denotano particolare interesse per le proprie responsabilità civiche.8 Solo circa due terzi degli inter vistati conosceva il nome del vicepresidente, mentre gli americani in grado di riconoscere la cantante Beyoncé Knowles erano quattro volte più numerosi rispetto a quelli che sapevano chi fosse Harry Reid, il capo della maggioranza in Senato, e quelli in grado di riconoscere Peyton Manning, quarterback degli Indianapolis Colts, erano tre volte più numerosi rispetto agli americani che hanno saputo identificare Robert Gates, il segretario alla Difesa. Solo la metà sapeva che la violenza religiosa era la causa di molti conflitti in Iraq e meno di un terzo che i sunniti erano il principale gruppo che si contrapponeva agli sciiti in un paese le cui vicissitudini hanno campeggiato sulle prime pagine dei giornali americani per cinque anni prima delle elezioni. Meno di un terzo si ricordava il nome del presi dente russo e solo un terzo circa degli americani, secondo uno studio del governo canadese riportato dall'«Economist», ha il passaporto. Tutti questi dati suggeriscono che la preparazione a «controllare» il potere più forte dell'era globale è estrema mente carente.9 Con un simile livello di conoscenza, ma sarebbe meglio dire di ignoranza, gli elettori possono essere manipolati più facilmente oppure decidere di non sostenere il sistema di governo, di fatto vanificando l'efficacia del principale centro di controllo sul potere del presidente.

Il fatto che la maggior parte delle questioni internazionali non incontri l'interesse degli elettori ha dato ai potenti di Washington la sensazione di poter gestire la loro politica internazionale con il sostegno di una ristretta cerchia di specialisti. Ci troviamo di fronte al fattore «abrogazione». Quasi un terzo dei membri del Congresso americano e quasi due terzi dei loro staff non hanno il passaporto. Persino questi professionisti della politica a tempo pieno sembrano aver rinunciato a partecipare attivamente alla definizione del ruolo internazionale degli Stati Uniti, oppure lavorano con l'errata convinzione di poter pro porre, senza mai essersi avventurati oltre i confini nazionali, pareri costruttivi sulla funzione degli Stati Uniti nel mondo. Quattro dei cinque presidenti eletti tra il 1976 e il 2006 non avevano grande esperienza di politica internazionale.10 Dovremmo quindi stupirci se il dibattito sulle conseguenze dei principali inter venti internazionali è così inadeguato o se questi interventi sono quasi ignorati dalla storia o danno l'impressione di essere solo un'interpretazione di problemi regionali? Come mi disse una volta un influente consulente politico, «gli americani tendono ad agire in base alle loro convinzioni piuttosto che alle loro conoscenze e amano i leader che hanno lo stesso atteggiamento».

Nel vuoto lasciato dal Congresso avanzano marciando quelli che vorrebbero influenzare l'andamento di tali vicende; non sorprende che si tratti di un gruppo composto in buona parte da persone con interessi globali e capaci di attribuire grande peso al proprio ruolo sfruttando altri strumenti di potere e influenza.

Un gruppo simile, protagonista del mio precedente libro, Running the World, è la comunità politica internazionale di Washington.11 È un gruppetto coeso di persone influenti, molte delle quali si conoscono oppure hanno lavorato fianco a fianco per la maggior parte della loro carriera. Persone che hanno ricoperto, o probabilmente ricopriranno, incarichi di spicco in politica estera e nella sicurezza nazionale, e tra queste persone quelle che hanno in assoluto maggiore influenza sono poche centinaia. Molti hanno studiato o insegnato in università d'elite (tanto per fare qualche nome: l'ex segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, e Frank Carlucci erano compagni di stanza al l'Università di Princeton; Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, il consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, erano rivali a Harvard; il padre di Madeleìne Albright ha insegnato politica estera a Condoleezza Rice). In genere i membri di questo gruppo ristretto fanno parte del Council on Foreign Relations e di altre istituzioni che contribuiscono a consolidare i loro legami, e spesso lavorano insieme amministrazione dopo amministrazione. Inoltre, grazie alla presenza continua e in fluente negli incarichi politici più importanti, sono tra i pochi che possono vantare stretti rapporti con le élite della politica estera dei vari governi di tutto il mondo, aumentando così il loro prestigio a Washington.

Nella corsa alla Casa Bianca i candidati hanno bisogno di team di consulenti, esperti non solo nel dare preziosi consigli, ma anche nel confermare la loro adeguatezza, ovvero nel dimostrare la competenza dei candidati, per esempio nelle questioni internazionali. Non sorprende quindi che i migliori in questo ruolo siano proprio coloro che in passato hanno ricoperto incarichi di alto livello. Chi ha già collaborato con un candidato molto probabilmente farà di nuovo parte del team di consulenti. Come ho spiegato in Running the World, si tratta di una di quelle comunità in cui la miglior credenziale per entrarvi è farne già parte: si forma e si stabilizza un gruppo interdipendente di persone con deleghe decisionali e una notevole concentrazione di potere nelle mani di pochi.

Questo potere si estende oltre gli uffici governativi. Abbiamo già parlato dell'influenza esercitata da società come Goldman Sachs ai più elevati livelli del governo; vale però la pena di sottolineare ancora una volta l'importanza di quel rapporto diretto che permette ai politici di lasciare aziende di primaria importanza per entrare nel governo e, successivamente, ritornare in quelle aziende. Si tratta di una modalità grazie alla quale la comunità finanziaria perpetua la propria influenza. Forse non sorprende eccessivamente sapere che gli ultimi segretari del Te soro americani, una volta terminato l'incarico politico, hanno avuto un impiego ad alto livello nel mondo della finanza: l'ex segretario John Snow è entrato alla Cerberus, l'ex segretario Paul O'Neìll è un consulente di Blackstone, l'ex segretario Lawrence Summers lavora alla D. E. Shaw, l'ex segretario Robert Rubin è alla Citigroup e l'ex segretario Nicholas Brady ha una propria azienda, la Darby Overseas Investments. In realtà, un incarico governativo ad alto livello è una delle vie più dirette per un impiego remunerativo a Wall Street, nel settore della difesa o nelle grandi società. Anche se questa osservazione potrebbe rientrare nella categoria «Notizie dal nulla» - presumibilmente tutte queste persone devono comunque ricominciare a lavorare da qualche parte dopo aver lasciato il governo, ciò non toglie importanza al fatto che le grandi aziende e società di Wall Street con lunghe liste di ex funzionari governativi abbia no un'influenza spropositata sulle decisioni politiche.

Bastano davvero pochi esempi per dare il senso dell'impatto di questa connessione tra élite in diversi settori. Mentre scrivo, il consiglio di amministrazione di Goldman Sachs è composto, tra gli altri, da Stephen Friedman, ex amministratore delegato di Goldman e attuale presidente del President's Foreign Intelligence Advisory Board, e da James Johnson, ex presidente di Fannie Mae e consulente tra i più in vista dei candidati democratici alle presidenziali. In Goldman Sachs troviamo un'ampia rappresentanza di ex funzionari del governo compresi, tanto per fare qualche nome, l'ex sottosegretario di Stato Bob Hormats, l'ex sottosegretario del Tesoro John F. W. Rogers e l'ex presidente della New York Fed Gerald Corrigan.

Osservando anche altre importantissime aziende, oltre a Goldman, ci accorgiamo che la situazione è la stessa. Nel consiglio d'amministrazione di Morgan Stanley siedono Erskine Bowles, ex capo dello staff alla Casa Bianca, Laura Tyson, ex presidente del National Economie Council, e Donald Nicolaisen, ex capo contabile della SEC. Il consiglio d'amministrazione della Lehman Brothers è composto, tra gli altri, da John Macomber, ex presi dente della Export Import Bank, e Marsha Johnson Evans, ex ammiraglio di divisione. Probabilmente, il consiglio d'amministrazione più folto di nomi eccellenti è quello dell'American International Group: William S. Cohen, ex segretario alla Difesa, Martin Feldstein, ex presidente del President's Council of Economie Advisers, Carla Hills, ex rappresentante usa per il commercio, Richard Holbrooke, ex ambasciatore alle Nazioni Unite, Michael Sutton, ex capo contabile della Security and Exchange Commission, e l'ex «zar dell'energia» Frank Zarb.

Nell'elenco, ovviamente, sono presenti anche nomi di personaggi non americani. L'elenco dei leader internazionali collega ti con le principali istituzioni finanziarie è altrettanto lungo. L'ex primo ministro britannico John Major al termine del suo mandato è entrato a far parte del Carlyle Group, mentre l'ex primo ministro peruviano Pedro-Pablo Kuczynski è entrato in Credit Suisse First Boston. A Davos, nel 2006, ho presieduto una tavola rotonda cui partecipava anche Shaukat Aziz, primo ministro pakistano, che, durante la nostra chiacchierata nella stanza verde, raccontò quanto fossero stati utili gli anni trascorsi a Citigroup come palestra per il proprio impegno politico.

Anche se tali persone, e le molte altre che con disinvoltura passano da incarichi politici a impieghi in grosse società, si sforzassero al massimo per evitare conflitti d'interesse, sarebbe difficile non accorgersi di come le visioni del mondo di due comunità così interdipendenti stiano iniziando a fondersi. Con un gruppo così chiuso al vertice dell'apparato politico americano, e una probabilità così elevata che i suoi membri prima o dopo i loro mandati passino alle dipendenze delle aziende più attive a livello internazionale che garantiscono retribuzioni da capogiro, appare chiaro come le priorità delle più importanti multinazionali siano sempre ben note ai massimi livelli del governo statunitense. Ecco, dunque, che cosa accade tra le forze che riempiono il vuoto lasciato dall'ignoranza del popolo americano e di molti suoi rappresentanti. Questa situazione ha, tra l'altro, come conseguenza diretta leggi assai favorevoli alle istituzioni finanzia rie. Per fare un esempio che suscitò forti polemiche proprio mentre scrivevo questo libro, le società di private equity erano riuscite a convincere il Congresso a trattare il loro carried interest (commissione di performance) nelle società come capital gain, anziché come reddito ordinario, cosa che ha fruttato loro una so stanziale agevolazione fiscale (15 per cento invece di un ben più oneroso 45 per cento).12 Molti, persino alcuni leader del settore finanziario come Warren Buffet, considerarono l'episodio tal mente ingiusto da assumere un atteggiamento di aperta ostilità. Dal momento che lo scacchiere sul quale si esercita l'influenza statunitense è il mondo, il rapporto diretto tra comunità finanziaria e politica è un fenomeno che ha ripercussioni anche a livello globale. Non è casuale che questo gruppo, in linea di massima, sia favorevole a orientamenti politici come confini aperti, meno regole e meno tasse; per di più, è favorevole anche alle riprogrammazioni del debito e alle operazioni di «salvataggio» per prestiti sbagliati, come nei casi del Brady Pian dopo le crisi del debito in America Latina negli anni Ottanta e dell'intervento americano per scongiurare la catastrofe finanziaria in Messico durante la cosiddetta «Tequila Crisis» tra la fine del 1994 e l'inizio del 1995. Sotto molti aspetti, ciò non avviene solo perché un gruppo ne influenza un altro, ma perché in realtà esiste un solo gruppo, i cui singoli rappresentanti passano da un incarico all'altro. Poiché i membri di questa comunità sono in genere raffinati, ben preparati, intelligenti e di successo, non sorprende che buona parte delle soluzioni da loro proposte sia efficace e meritevole di essere sperimentata. Ma dov'è il contrappeso in questo sistema? Dove finisce il diritto democratico di controllo che dovrebbe essere esercitato direttamente da chi sopporta le conseguenze di queste decisioni come, per esempio, i contribuenti, che devono pagare il conto delle operazioni di «salvataggio» o rimpinguare le casse dell'erario a causa delle agevolazioni fiscali concesse ai grandi investitori in società di private equity? È difficile immaginare che il ruolo di controllore possa essere svolto da un Congresso che, in molti casi, non ca pisce nulla di finanza o di possibili scenari internazionali, così come appare poco saggio affidarsi a settori governativi per i quali la ristretta comunità di chi decide rappresenta il principale centro di reclutamento dei suoi esponenti di spicco.


Come mi disse un pomeriggio Thomas Friedman nel suo ufficio al «New York Times», a due soli isolati dalla Casa Bianca: «Ora, tra legislatori, uomini d'affari e tecnocrati c'è una sproporzione nella conoscenza dei meccanismi dell'economia globale vasta quanto l'Oceano Atlantico; in altre parole, quanti legislatori conosci che, a tuo parere, abbiano una solida esperienza pratica paragonabile alla tua o a quella di un qualsiasi amministratore delegato di una multinazionale? Ecco perché questi governi nazionali hanno un problema: come puoi pensare di controllare qualcosa che non sei nemmeno in grado di comprendere, e cosa c'è di più complesso dei meccanismi di un'economia globale? E se un governo non è in grado di gestire il problema [...] è naturale che venga vicariato dalla comunità finanziaria. Se questa costituisca l'intenzione originaria o la soluzione migliore per tutti, è una questione sulla quale si può discutere».

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