LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

da “La Crisi del Capitalismo Globale”

George Soros 1998

La democrazia dovrebbe fornire lo strumento per prendere le decisioni collettive più idonee agli interessi della comunità. Nell’ambito di tali decisioni, dovrebbe raggiungere lo stesso obiettivo che persegue il mercato nell’ambito delle decisioni individuali. I cittadini eleggono dei rappresentanti che si riu­niscono in assemblea per prendere decisioni collettive attra­verso il meccanismo del voto. Questo è il principio su cui si fonda la democrazia rappresentativa, e presuppone un certo tipo di rapporto fra i cittadini e i loro rappresentanti. I candi­dati si presentano ed espongono ai cittadini i principi di cui si fanno portatori; i cittadini scelgono la persona con le cui idee si sentono più affini. Nel buon tempo antico, Thomas Jeffer­son incarnava questo tipo di rappresentanza, salvo che lui, durante la campagna elettorale, restava a casa. Il sistema si fonda sul presupposto dell’onestà, così come il concetto di concorrenza perfetta si fonda sull’assunto della conoscenza perfetta. Naturalmente, si tratta di un presupposto irrealisti­co. Da un pezzo i candidati hanno scoperto che le probabilità di venire eletti sono molto più alte se dicono quel che l’elet­torato vuole sentirsi dire, piuttosto che quel che pensano. Ma non tutto è perduto: il sistema prevede questo inconveniente. Infatti, se il candidato non mantiene le promesse, può venire rimosso dalla carica, e così le condizioni si mantengono pros­sime all’equilibrio. Se i votanti, come talvolta accade, non ot­tengono i rappresentanti desiderati, possono correggere l’er­rore nelle successive votazioni.
Ma le condizioni possono anche allontanarsi di molto dal­l’equilibrio per via di un processo riflessivo. Il candidato met­te a punto alcune tecniche per sfruttare il divario tra ciò che promette e ciò che fa. Conduce sondaggi di opinione e parte­cipa a incontri di gruppo per scoprire quel che l’elettorato vuole sentirsi dire e poter poi formulare i propri messaggi sulla falsariga di quei desi eri. Ciò crea una corrispondenza fra le promesse del candidato e le aspettative degli elettori, una corrispondenza che tuttavia si forma nel modo sbagliato, perché, anziché produrre un candidato che la pensa come gli elettori, modula le promesse dell’uno sulle aspettative degli altri. Finisce così che gli elettori non ottengono mai i rappre­sentanti che desiderano; rimangono delusi e perdono fiducia nel sistema.
Ma anche gli elettori hanno le loro responsabilità. Invece di scegliere rappresentanti che abbiano a cuore l’interesse della comunità, antepongono a quest’ultimo il proprio im­mediato tornaconto. Ed è proprio al tornaconto personale degli elettori che i candidati cercano a loro volta di fare ap­pello. Dal momento che non possono ragionevolmente sod­disfare gli interessi di tutti, specie se si tratta di interessi contrastanti, sono costretti a scendere a compromessi con interessi particolari. Il sistema conosce un ulteriore deterio­ramento quando negli elettori viene meno l’interesse per l’o­nestà e la correttezza dei propri candidati, purché essi conti­nuino a farsi portavoce dei loro interessi personali. La cor­ruzione dilaga quando entra in gioco il denaro. Indubbia­mente, negli Stati Uniti soltanto i candidati che scendono a compromessi con interessi particolaristici riescono a ottenere abbastanza denaro da essere eletti. Le condizioni di lonta­nanza dall’equilibrio si realizzano quando l’elettorato non si aspetta più che i candidati siano onesti, ma li giudica esclu­sivamente in base alla loro capacità di farsi eleggere. Lo squilibrio dinamico viene ulteriormente rafforzato dal ruolo svolto dagli spot televisivi nelle elezioni. Questi prendono il posto dell’onesta esposizione delle idee cui i candidati sareb­bero tenuti e contribuiscono ad accrescere l’importanza del denaro, perché sono a pagamento. Queste sono le condizio­ni oggi esistenti.
Confrontiamole ora con il boom dei conglomerati di cui ho parlato in un precedente capitolo. Gli amministratori dei con­glomerati hanno sfruttato un’imperfezione nelle valutazioni degli utili fatte dagli investitori. Hanno cioè scoperto di poter incrementare il proprio utile per azione promettendo agli investitori di accrescere gli utili per azione effettuando acquisi­zioni. E lo stesso che dire agli elettori quel che vogliono sen­tirsi dire: entrambi sono esempi di squilibrio dinamico. Ma che differenza! Il boom dei conglomerati è stato corretto da un crollo; per giunta, si è trattato di un incidente più o meno isolato, anche se infortuni del genere continuano a verificarsi. Resta comunque il fatto che i mercati conoscono un modo per correggere i propri eccessi; al rialzo segue sempre un ri­basso del mercato. Sotto questo profilo, non sembra che la democrazia rappresentativa sia altrettanto efficiente. Quan­tunque governi e legislatori vengano regolarmente sostituiti dall’elettorato, come prevede il sistema, non soltanto la demo­crazia sembra incapace di correggere i propri eccessi, ma sembra addirittura precipitare sempre più in una condizione di lontananza dall’equilibrio: un’analisi convalidata dalla cre­scente disaffezione dell’elettorato.
Questo fenomeno non è certo una novità: negli anni fra le due guerre mondiali ha provocato in molti paesi europei il crollo della democrazia e l’avvento del fascismo. Ma questa volta l’insoddisfazione si manifesta in modo diverso. In realtà, la democrazia non è gravemente minacciata in nessuno dei paesi al centro del sistema capitalistico globale, e sta prenden­do piede in periferia. Ma è un sistema politico che si è anda­to sempre più screditando, perché la fiducia delle persone è confluita verso il mercato, dando luogo a quel fenomeno che chiamiamo fondamentalismo del mercato. Il fallimento della politica diventa così l’argomento più forte in mano a chi vor­rebbe lasciare briglia sciolta ai mercati. Ma il fondamentali­smo del mercato ha favorito a sua volta la nascita del sistema capitalistico globale, il quale ha ridotto la capacità dello Stato di garantire la sicurezza sociale ai suoi cittadini, dando prova di un altro fallimento della politica, almeno dal punto di vista dei cittadini bisognosi di tale assistenza. Nei processi riflessivi, non è possibile separare causa ed effetto. Il confronto con il boom dei conglomerati ci aiuta a dimostrare quanto la politi­ca si sia allontanata dall’equilibrio. In questo contesto, equilibrio significa che il processo politico soddisfa le aspettative dell’elettorato.
A questo proposito, due parole per mettere in chiaro un punto. Io pongo l’accento sulla capacità dei mercati di cor­reggere i propri eccessi proprio nel momento in cui forse l’hanno persa. Gli investitori hanno perso fiducia nei fonda­mentali. Sono giunti alla conclusione che lo scopo non sono i valori di fondo, ma il profitto. Molti dei vecchi criteri di valu­tazione si sono persi strada facendo, e chi continua a crederci fa la figura del perdente di fronte a chi ritiene di essere agli albori di una nuova era. Ma se anche i mercati avessero perso il loro punto di ancoraggio, ciò non fa che convalidare la con­clusione che ci troviamo in una condizione di lontananza dal­l’equilibrio.
Quel che è vero per la politica lo è altrettanto per i valori sociali. Per molti aspetti, i valori sociali sono inferiori rispetto ai valori di mercato: non solo non possono essere quantificati, ma neanche individuati, e non possono neanche essere ricon­dotti a un denominatore comune, il denaro. Ciò non toglie che una comunità ben strutturata sottoscriva valori ben defi­niti; che i suoi membri li rispettino o li trasgrediscano, se ne sentano sostenuti od oppressi, almeno sanno sempre di quali valori si tratta. Ma noi non viviamo in una società di questo tipo: abbiamo difficoltà a distinguere fra giusto e sbagliato. L’amoralità dei mercati ha compromesso la moralità proprio in quei settori in cui la società non può farne a meno. Non v’è consenso sui valori morali, mentre sui valori monetari l’in­certezza è molto minore: non soltanto è possibile quantificarli, ma il fatto che vengano apprezzati da chi ci sta intorno ci ras­sicura. Offrono una certezza che i valori sociali non garanti­scono.
Ora, è vero che i valori sociali sono più incerti dei valori di mercato, ma senza di essi la società non può esistere. I valori di mercato ne hanno preso il posto, ma non possono svolgere lo stesso ruolo. Sono stati pensati per decisioni individuali in un contesto competitivo, e non sono adatti alle decisioni collettive in una situazione che, oltre alla competizione, richiede anche collaborazione.
Si è permesso che si facesse confusione tra le diverse fun­zioni, e ciò ha compromesso il processo decisionale collettivo. I valori di mercato non possono sostituirsi al senso della col­lettività. Ogni volta che politica e affari si incontrano, c’è il ri­schio che l’influenza politica venga usata per fini economici. E tradizione ormai consolidata che i rappresentanti eletti deb­bano tutelare gli interessi del loro elettorato. Ma dove passa il confine fra quel che è legittimo e quel che non lo è? La pre­minenza data agli interessi economici, cui si aggiunge il torna­conto dei politici, ha spostato quel confine al di là di ciò che la maggior parte degli elettori considera accettabile; da qui nascono la delusione e la disaffezione. Lo si può constatare sia in politica interna sia in politica internazionale. Sul piano internazionale, a ciò si aggiunge il fatto che, in democrazia, la politica estera viene in genere dettata da considerazioni di po­litica interna. Questa tendenza è particolarmente accentuata negli Stati Uniti, dove esistono blocchi elettorali etnici, ma il governo francese, per esempio, ha una tradizione ancor più consolidata di commistione di interessi economici e politici. Il presidente di un paese dell’Europa dell’Est che io conosco è rimasto esterrefatto perché, in un incontro con il presidente francese Jacques Chirac, quest’ultimo aveva dedicato gran parte del tempo a convincerlo a favorire un compratore fran­cese in un’operazione di privatizzazione. Per non parlare del commercio di armi.
Da che mondo è mondo esiste la corruzione, ma un tempo la gente se ne vergognava e cercava di nasconderla. Ora che la motivazione del profitto è assurta a principio morale, i poli­tici di alcuni paesi si vergognano quando non riescono a trar­re vantaggio dalla propria carica. È un fenomeno che ho ri­scontrato personalmente nei paesi dove hanno sede le mie fondazioni. L’Ucraina, in particolare, si è fatta una pessima reputazione in tal senso. Ho condotto uno studio anche sui paesi africani, e ho scoperto che i paesi ricchi e quelli poveri di risorse sono tutti poveri allo stesso modo: l’unica differenza sta nel fatto che i governi dei primi sono molto più corrotti.
Ma liquidare il sistema decisionale collettivo solo perché è inefficiente e corrotto sarebbe come liquidare il sistema del mercato soltanto perché è instabile o ingiusto. In entrambi i casi, l’impulso proviene dalla stessa fonte: l’incapacità di ac­cettare che tutte le costruzioni umane sono imperfette e van­no migliorate.
Le teorie vigenti sul meccanismo del mercato e sulla demo­crazia rappresentativa sono state elaborate sotto l’influsso del­l’Illuminismo e, senza neanche rendersene conto, considerano la realtà indipendente dal pensiero dei partecipanti: i mercati finanziari dovrebbero andare incontro a un futuro che non dipende dalle valutazioni presenti; i candidati che vengono eletti dovrebbero rappresentare i valori in cui credono, a pre­scindere dal desiderio di essere eletti. Ma le cose non stanno così. Né il sistema del mercato né la democrazia rappresenta­tiva soddisfano le aspettative di cui vengono caricati. Non per questo, però, vanno liquidati. Al contrario, dobbiamo ricono­scere che la perfezione è irraggiungibile e adoperarci per cor­reggere le carenze delle istituzioni esistenti.
Ai fondamentalisti del mercato non piacciono le decisioni collettive, di qualsiasi genere e forma, perché mancano del meccanismo automatico di correzione dell’errore, proprio di un mercato che si pensa tenda all’equilibrio. Essi sostengono che l’interesse generale trova migliore soddisfazione per via indiretta, consentendo, cioè, alle persone di perseguire i pro­pri interessi personali. Ripongono fiducia nella «mano invisi­bile» del mercato. Ma questa fiducia è mal riposta, e ciò per due ragioni.
In primo luogo, l’interesse comune non trova espressione nel comportamento del mercato. Le imprese non mirano a creare occupazione; assumono personale (nel minor numero possibile e al minor costo possibile) per realizzare un profitto. Le aziende del settore dell’assistenza sanitaria non operano per salvare vite umane: forniscono servizi per trarne profitto. Le compagnie petrolifere difendono l’ambiente soltanto entro i limiti imposti dalle leggi o necessari a salvaguardare la pro­pria immagine pubblica. In alcuni casi, può accadere che la piena occupazione, l’assistenza sanitaria a prezzi ragionevoli e la tutela ambientale siano un prodotto accidentale di opera­zioni di mercato: ma conquiste tanto importanti per la collet­tività non possono essere garantite dal solo principio del pro­fitto. Non si può affidare alla mano invisibile del mercato la sorte di interessi che non sono di sua competenza.
In secondo luogo, i mercati finanziari sono instabili. Io ne apprezzo appieno i meriti come meccanismo di feedback, che non soltanto consente, ma costringe i partecipanti a corregge­re i propri errori, ma vorrei dire che, a volte, anche i mercati finanziari crollano. Anche il meccanismo del mercato deve es­sere corretto secondo un sistema di prove ed errori. Le ban­che centrali sono particolarmente idonee in tal senso perché interagiscono con i mercati finanziari e ne ricevono un feed­back che consente loro di correggere i propri errori.
Condivido l’avversione diffusa nei confronti della politica. Sono una creatura che si sente a suo agio nei mercati e godo della libertà e delle opportunità che essi offrono. Come par­tecipante al mercato, posso prendere decisioni autonome e apprendere dai miei stessi errori. Non sono tenuto a convin­cere altri a fare alcunché, e i risultati non sono toccati dal processo decisionale collettivo. Per strano che possa sembra­re, partecipare ai mercati finanziari gratifica la mia ricerca della verità. Ho un pregiudizio contro la politica e altri pro­cessi decisionali collettivi, ma riconosco che non possiamo farne a meno.

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